Benedetto pullman... Lettera diocesana sui campiscuola

Stefano Callegaro

Ricordo l’espressione attonita e moderatamente preoccupata di mio padre e mia madre quando, nei pressi dell’ex Foro Boario (come ancora si usa chiamarlo a Padova) li salutavo attraverso i grandi finestrini del pullman, oscurati dalle grosse e puzzolenti tendine, mentre con gli altri bambini – tutti rigorosamente maschi, noi ragazzi dell’Acierre diocesana – continuavamo a gridare: «Ciao, ciao, ciao…», scuotendo le mani e ridendo fragorosamente, eccitati dal lunghissimo viaggio che ci attendeva verso le Dolomiti di Cadore per andare a “fare il camposcuola”. Dopo ore di Valsugana al gusto di gasolio, un po’ intimiditi dalle “facce nuove”, già afoni per i nuovi bans da urlare, scendevamo carichi di zaini e di valige più grandi e pesanti di noi, avvertendo all’istante l’aria delle montagne, fresca anche d’estate… Lassù, collegati solo dal numero – a quattro cifre – del telefono nero a muro con la tastiera girevole, iniziava un tempo completamente nuovo, tanto che un ragazzo di poco più di dieci anni riusciva a dimenticare la nostalgia di casa e dei genitori.

Feci molti camposcuola da bambino e da ragazzo; poi da adolescente cominciò “la moda” dei campi parrocchiali con quelli del gruppo della parrocchia. Da giovane, poi seminarista, cominciai a fare l’“animatore” – come allora si osava dire, prima che la “riforma” attribuisse l’altisonante appellativo di “educatori” – assieme ad altri giovani della parrocchia; continuavo a fare anche qualche campo diocesano (già iniziavano a diradare!): l’ultimo fu l’estate dopo l’ordinazione presbiterale…

Un camposcuola credo sia ancora capace di incantare un ragazzo, anche se l’IPhone della mamma whatsappa o suona quattro volte al giorno. Un camposcuola è ancora una sorpresa e un dono offerto alla vita e allo spirito di un adolescente di oggi: si ride fino a notte tarda ma poi al mattino si eleva la propria anima a Dio; si vuole continuare a giocare a pallone quando il pranzo è servito ma poi si impara a lavare i piatti; si nasconde la cioccolata portata da casa ma si dà un sorso d’acqua a chi, in escursione, l’ha terminata. Un camposcuola è certamente una cosa meno in voga d’un tempo ma là, come solo ancora poche altre “scuole di vita” riescono a fare, l’esistenza e la fede si incrociano. Un ragazzo tra giochi, qualche lacrima di nostalgia e qualche spintone un po’ da discolo, si trova a poter riconoscere ogni giorno la presenza di Dio. È come si aprisse uno spazio singolare in cui possono accorgersi di Dio aprendo il loro cuore, così frequentemente trascinato in contesti, scelte, relazioni e attività spesso lontane, indifferenti o – ahimè – avversi a Dio.

A chi legge, certamente innamorato di Cristo e della sua Chiesa, forse sembreranno poca cosa se non insufficienti le occasioni offerte da un camposcuola in un tempo di secolarità e di analfabetismo religioso come il nostro; ma sono convinto che per un ragazzo la preghiera del mattino e della sera, la messa sulla roccia della vetta di un monte o celebrata nella radura di un bosco, la preghiera notturna sotto la volta stellata o le “confessioni” di “metà campo”, la possibilità di avvicinare e instaurare la confidenza umana e spirituale con un uomo di Dio (il presbitero, ndr), vedere un calice da vicino o scorgere una corona del rosario tra le dita di suor Paola, sfogliare una Bibbia o osservare che don Matteo indossa le vesti liturgiche per la messa quotidiana con le cuoche… tutto ciò è una piccola ma preziosa irruzione di Dio nella vita. All’uomo secolarizzato qualche giorno tra le Dolomiti o tra i colli senesi, mentre tutto conduce al pensiero di Dio, credo sia una benedizione.

A noi, educatori, genitori, presbiteri, diaconi e religiosi il compito di condurre i cuori dei ragazzi a Dio attraverso queste singolari occasioni; è necessario liberarci però da sovrastrutture eccentriche o infantilistiche, dalla tentazione di portare – specie nelle azioni liturgiche – la spettacolarità, il gioco, la scenografia, il frastuono; è necessario non cedere alla tentazione di scelte “a effetto”, di ricercare un novum fine a se stesso, spesso inizio di quello sdrucciolevole scollamento dalla Tradizione della Chiesa che teorizza Messe “da campo”, “da ragazzi”, “alternative”, “destrutturate” e lontane da ciò cui dovremmo condurli a celebrare ogni domenica nella vita ordinaria della Chiesa: essa, con materna sapienza e concretezza, ci esorta a ricordare che la messa «deve essere compiuta nel luogo sacro, a meno che in un caso particolare (come un camposcuola, ndr) la necessità non richieda altro; nel qual caso la celebrazione deve essere compiuta in un luogo decoroso» (cfr. CJC can. 932 §1)… come a dire che in qualunque angolo del creato, a qualunque età e condizione di vita, credenti o alla ricerca di Dio, non possiamo celebrare noi stessi ma il glorioso sacrificio di Cristo Signore, immolato, sepolto e risuscitato: Alfa e Omega, principio e fine di tutte le cose e di ognuno di noi!

don Gianandrea Di Donna, direttore Ufficio diocesano per la Liturgia

Scritto da Stefano Callegaro
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