Omelia Cantalamessa

Stefano Callegaro

Di seguito l'omelia di Padre raniero Cantalamessa, predicatore dellacasa pontificia, tenuta durante la celabrazione del venerdì santo nella Basilica di San Pietro a Roma.

San Gregorio Magno diceva che la Scrittura cum legentibus crescit, cresce con coloro che la leggono. Esprime significati sempre nuovi a seconda delle domande che l’uomo porta in cuore nel leggerla. E noi quest’anno leggiamo il racconto della Passione con una domanda –anzi con un grido – nel cuore che si leva da tutta la terra. Dobbiamo cercare di cogliere la risposta che la parola di Dio dà ad esso.

Quello che abbiamo appena riascoltato è il racconto del male oggettivamente più grande mai commesso sulla terra. Noi possiamo guardare ad esso da due angolature diverse: o di fronte o di dietro, cioè o dalle sue cause o dai suoi effetti. Se ci fermiamo alle cause storiche della morte di Cristo ci confondiamo e ognuno sarà tentato di dire come Pilato: “Io sono innocente del sangue di costui” (Mt 27,24). La croce si comprende meglio dai suoi effetti che dalle sue cause. E quali sono stati gli effetti della morte di Cristo? Resi giusti per la fede in lui, riconciliati e in pace con Dio, ricolmi della speranza di una vita eterna! (cf. Rom 5, 1-5).

Ma c’è un effetto che la situazione in atto ci aiuta a cogliere in particolare. La croce di Cristo ha cambiato il senso del dolore e della sofferenza umana. Di ogni sofferenza, fisica e morale. Essa non è più un castigo, una maledizione. È stata redenta in radice da quando il Figlio di Dio l’ha presa su di sé. Qual è la prova più sicura che la bevanda che qualcuno ti porge non è avvelenata? È se lui beve davanti a te dalla stessa coppa. Così ha fatto Dio: sulla croce ha bevuto, al cospetto del mondo, il calice del dolore fino alla feccia. Ha mostrato così che esso non è avvelenato, ma che c’è una perla in fondo ad esso.

E non solo il dolore di chi ha la fede, ma ogni dolore umano. Egli è morto per tutti. “Quando sarò elevato da terra, aveva detto, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Tutti, non solo alcuni! “Soffrire –scriveva san Giovanni Paolo II dopo il suo attentato – significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente sensibili all’opera delle forze salvifiche di Dio offerte all’umanità in Cristo”. Grazie alla croce di Cristo, la sofferenza è diventata anch’essa, a modo suo, una specie “sacramento universale di salvezza” per il genere umano.

Qual è la luce che tutto questo getta sulla situazione drammatica che stiamo vivendo? Anche qui, più che alle cause, dobbiamo guardare agli effetti. Non solo quelli negativi, di cui ascoltiamo ogni giorno il triste bollettino, ma anche quelli positivi che solo una osservazione più attenta ci aiuta a cogliere.
La pandemia del Coronavirus ci ha bruscamente risvegliati dal pericolo maggiore che hanno sempre corso gli individui e l’umanità, quello dell’illusione di onnipotenza. Abbiamo l’occasione – ha scritto un noto Rabbino ebreo – di celebrare quest’anno uno speciale esodo pasquale, quello “dall’esilio della coscienza”. È bastato il più piccolo e informe elemento della natura, un virus, a ricordarci che siamo mortali, che la potenza militare e la tecnologia non bastano a salvarci. “L’uomo nella prosperità non comprende –dice un salmo della Bibbia -, è come gli animali che periscono” (Sal 49, 21). Quanta verità in queste parole!

Mentre affrescava la cattedrale di San Paolo a Londra, il pittore James Thornhill, a un certo punto, fu preso da tanto entusiasmo per un suo affresco che, retrocedendo per vederlo meglio, non si accorgeva che stava per precipitare nel vuoto dall’impalcatura. Un assistente, inorridito, capì che un grido di richiamo avrebbe solo accelerato il disastro. Senza pensarci due volte, intinse un pennello nel colore e lo scaraventò in mezzo all’affresco. Il maestro, esterrefatto, diede un balzo in avanti. La sua opera era compromessa, ma lui era salvo.

Così fa a volte Dio con noi: sconvolge i nostri progetti e la nostra quiete, per salvarci dal baratro che non vediamo. Ma attenti a non ingannarci. Non è Dio che con il Coronavirus ha scaraventato il pennello sull’affresco della nostra orgogliosa civiltà tecnologica. Dio è alleato nostro, non del virus! “Io ho progetti di pace, non di afflizione”, dice nella Bibbia (Ger 29,11). Se questi flagelli fossero castighi di Dio, non si spiegherebbe perché essi colpiscono ugualmente buoni e cattivi, e perché, di solito, sono i poveri a portarne le conseguenze maggiori. Sono forse essi più peccatori degli altri?

No! Colui che un giorno pianse per la morte di Lazzaro, piange oggi per il flagello che si è abbattuto sull’umanità.

Sì, Dio “soffre”, come ogni padre e ogni madre. Quando un giorno lo scopriremo, ci vergogneremo di tutte le accuse che gli abbiamo rivolte in vita. Dio partecipa al nostro dolore per superarlo. “Essendo supremamente buono, –ha scritto sant’Agostino – Dio non permetterebbe mai che un qualsiasi male esistesse nelle sue opere, se non fosse sufficientemente potente e buono, da trarre dal male stesso il bene”.

Forse che Dio Padre ha voluto lui la morte del suo Figlio sulla croce, a fine di ricavarne del bene? No, ha semplicemente permesso che la libertà umana facesse il suo corso, facendola però servire al suo piano, non a quello degli uomini. Questo vale anche per i mali naturali, terremoti ed epidemie. Non le suscita lui. Egli ha dato anche alla natura una sorta di libertà, qualitativamente diversa, certo, da quella morale dell’uomo, ma pur sempre una forma di libertà. Libertà di evolversi secondo le sue leggi di sviluppo. Non ha creato il mondo come un orologio programmato in anticipo in ogni suo minimo movimento. È quello che alcuni chiamano il caso, e che la Bibbia chiama invece “sapienza di Dio”.

L’altro frutto positivo della presente crisi sanitaria è il sentimento di solidarietà. Quando mai, a nostra memoria, gli uomini di tutte le nazioni si sono sentiti così uniti, così uguali, così poco litigiosi, come in questo momento di dolore? Mai come ora abbiamo sentito la verità di quel grido di un nostro poeta: “Uomini, pace! Sulla prona terra troppo è il mistero”. Ci siamo dimenticati dei muri da costruire. Il virus non conosce frontiere. In un attimo ha abbattuto tutte le barriere e le distinzioni: di razza, di religione, di ricchezza, di potere. Non dobbiamo tornare indietro, quando sarà passato questo momento. Come ci ha esortato il Santo Padre, non dobbiamo sciupare questa occasione. Non facciamo che tanto dolore, tanti morti, tanto eroico impegno da parte degli operatori sanitari sia stato invano. È questa la “recessione” che dobbiamo temere di più.

Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,
delle loro lance faranno falci;
una nazione non alzerà più la spada
contro un’altra nazione,
non impareranno più l’arte della guerra. (Is 2,4)

È il momento di realizzare qualcosa di questa profezia di Isaia, di cui da sempre l’umanità attende il compimento. Diciamo basta alla tragica corsa verso gli armamenti. Gridatelo con tutta la forza, voi giovani, perché è soprattutto il vostro destino che si gioca. Destiniamo le sconfinate risorse impiegate per gli armamenti agli scopi di cui, in queste situazioni, vediamo l’urgenza: la salute, l’igiene, l’alimentazione, la lotta contro la povertà, la cura del creato. Lasciamo alla generazione che verrà un mondo, se necessario, più povero di cose e di denaro, ma più ricco di umanità.

La parola di Dio ci dice qual è la prima cosa che dobbiamo fare in momenti come questi: gridare a Dio. È lui stesso che mette sulle labbra degli uomini le parole da gridare a lui, a volte parole dure, di lamento, quasi di accusa. “Àlzati, Signore, vieni in nostro aiuto! Salvaci per la tua misericordia![…] Déstati, non ci respingere per sempre!” (Sal 44, 24.27). “Signore, non ti importa che noi periamo?” (Mc 4,38).

Forse che Dio ama farsi pregare per concedere i suoi benefici? Forse che la nostra preghiera può far cambiare a Dio i suoi piani? No, ma ci sono cose che Dio ha deciso di accordarci come frutto insieme della sua grazia e della nostra preghiera, quasi per condividere con le sue creature il merito del beneficio accordato. È lui che ci spinge a farlo: “Chiedete e otterrete, ha detto Gesú, bussate e vi sarà aperto” (Mt 7,7).

Quando, nel deserto, gli ebrei erano morsi dai serpenti velenosi, Dio ordinò a Mosè di elevare su un palo un serpente di bronzo e chi lo guardava non moriva. Gesú si è appropriato di questo simbolo. “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3, 14-15). Anche noi, in questo momento siamo morsi da un invisibile “serpente” velenoso. Guardiamo a colui che è stato “innalzato” per noi sulla croce. Adoriamolo per noi e per tutto il genere umano. Chi lo guarda con fede non muore. E se muore, sarà per entrare in una vita eterna.

“Dopo tre giorni risorgerò”, aveva predetto Gesú (cf. Mt 9,31). Anche noi, dopo questi giorni che speriamo brevi, risorgeremo e usciremo dai sepolcri che sono ora le nostre case. Non per tornare alla vita di prima come Lazzaro, ma per una vita nuova, come Gesù. Una vita più fraterna, più umana. Più cristiana!

Scritto da Stefano Callegaro
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Auguri di Buona Pasqua dal vescovo Claudio

Di seguito il messaggio di auguri di buona Pasqua dal Vescovo Claudio

AUGURI PASQUA 2025

In questo periodo ospitiamo al Museo diocesano di Padova una mostra molto interessante e
suggestiva: “Il Canova mai visto”. Il cuore della proposta è un monumento funebre in cui l’urna
cineraria è opera del famoso scultore veneto. In una tomba s’incontra la vita e la morte, o meglio,
per sottolineare il tema giubilare che ci accompagna quest’anno, s’incontrano la speranza e la
morte, perché come la nostra fede ci ricorda: la morte non è la fine di tutto, è l’inizio di una vita
nuova e racchiude la prospettiva della risurrezione che nella Pasqua riviviamo. Accanto alla tomba
c’è un cipresso: ci rammenta che la vita sboccia e perdura anche dove c’è la morte, che oltre il buio
c’è la luce.
È la luce della speranza, della fede, quella su cui possiamo contare nei momenti più difficili, nella
sofferenza, nelle difficoltà. La fede è un sostegno ancora più forte nel momento della paura, della
morte, delle preoccupazioni, dell’angoscia. E quante preoccupazioni viviamo oggi, a livello
mondiale, con le troppe guerre che non trovano soluzioni di pace – pensiamo solo a quelle più
vicine a noi, in Palestina, in Ucraina – e poi ci sono altri conflitti che si giocano con le armi
dell’economia, della tecnologia...
Come augurare buona Pasqua in un tale preoccupante scenario? Come augurare la Pasqua
laddove si combatte con il dolore, la malattia, la sofferenza?
Riconoscendo che c’è questa luce della speranza che viene accesa con la Pasqua e che ci permette
di osare ancora, di impegnarci a lottare per guarire se si è malati, o per tentare di risolvere i
conflitti e i problemi che quotidianamente ci affliggono.
La Pasqua ci ricorda che il Signore è Colui che sa illuminare la vita anche nei momenti più difficili e
bui, anche nel momento stesso della morte. Senza questa luce della speranza saremmo disperati.
Il mio augurio per questa Pasqua è proprio questo: che tutti voi siate raggiunti e vi lasciate
raggiungere dalla luce della speranza, consapevoli anche della forza di una comunità di cristiani: a
volte, infatti, le sofferenze sono così gravi, così pesanti che da soli non ci sentiamo in grado di
affrontarle, ed è proprio qui che diventa significativa l’appartenenza a una comunità, la vicinanza
di fratelli e sorelle con cui, insieme, possiamo osare di tener viva la fiamma della speranza. Tanto
più in quest’anno giubilare che ci vede tutti “pellegrini di speranza”.
Buona Pasqua.

+ Claudio Cipolla

Stefano Callegaro

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Viaggio in Brasile

Proposta viaggio sulle orme di Don Ruggero Ruvoletto a 15 anni dalla sua morte.

 

Stefano Callegaro

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A pranzo in compagnia

Domenica 30 marzo ore 12:30 siete invitati ad un pranzo in compagnia presso il patronato.

Per le iscrizioni contattare telefonicamente Anna Destro (340 0015254) o Miriam Rosa (333 5454493) entro domenica 23 marzo.

COSTO € 22,00
Bambini e Ragazzi
fino a 14 anni € 15,00
(acconto € 10,00)

In allegato la locandina

Stefano Callegaro

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